"Si sieda" "i risultati non sono come ero sicuro che fossero" "Lei ha i reni policistici"
Cosa sono, dottore?
Le spigazioni arrivano subito, a raffica, come tante lame sottili mi colpiscono; sono frastornata.
"... infezioni, aumento del volume e del numero delle cisti; previsione: dialisi.
Sintomi: dolori costanti nella zona lombare, l'ematuria (cioè sangue nell'urina), la calcolosi renale e le infezioni urinarie ripetute. In molti casi l'ipertensione arteriosa che lega il paziente ad un medicinale giornaliero.
Cure: non esiste un trattamento specifico della patologia... tutto quello che si può fare è di cercare di evitare che le cisti si ingrossino e di ridurre ulteriormente tutti i fattori di danno ai reni; controlli regolari della funzione renale.
Gravidanza: da pianificare se la funzione renale è normale, tenendo conto dell'ipertensione e della probabilità di trasmettere la malattia al figlio (in seguito mi è stato consigliato di non affrontare una gravidanza in quanto la crescita in grembo di un bambino avrebbe compromesso ancor più i reni e le numerose cisti)".
RIPORTO LE PAROLE ESATTAMENTE COME LE HO RECEPITE IO: CRUDE.Ricordo che ero sola davanti a quel medico e gli ho stampato un bel sorriso come per dire "va beh, che vuoi che sia...". Ma tremavo dentro per quello che mi aveva detto, non avevo capito bene, ma la paura era già lì, ho solo fatto finta di non vederla.
Ricordo il rientro a casa e i miei genitori. Volevo solo essere tenuta stretta e si, anche consolata, ma erano troppo impegnati nelle loro ripetute discussioni. "Ma va la', che non è niente" "Pensa a cose più serie ed importanti" e via con la loro routine di botta e risposta.
A pochi giorni di distanza voilà come per incanto ecco la prima infezione, quasi desiderata per far loro vedere... cinica mi sono detta... l'hai chiesta ed eccola.
Desiderio esaudito: la mia condizione di salute mi aveva messa esattamente al posto dove io volevo: al centro delle persone che mi circondavano, quelle da cui volevo maggiore attenzione. Ma è qui che sono sprofondata nel vittimismo che mi ha legato ancora di più alla malattia stessa... un circolo vizioso... Solo io ero importante, tutti correvano ed erano sempre presenti.
Ed è così che mi sono tirata la "zappa sul piede": scappo da una prigione e mi chiudo a chiave in un'altra.
Sono rimasta seduta su di una poltrona a crogiolarmi nel dolore senza accorgermi che tutto questo marcava limiti più stretti, limiti che sono usciti imponenti durante questi ultimi anni: rigidità fisica, paura del giudizio degli altri e quindi di confrontarmi, paura di soffrire, paura di vivere e sperimentare.
Ma soprattutto non ho voluto ammettere ciò che mi faceva più male.
Tutti erano attorno a me, tutti tranne lui, mio padre che puntualmente faveva la valigia e si trasferiva in montagna con una scusa banale finchè non mi riprendevo.
Ogni volta mi riportava il ricordo di una bambina in braccio al suo papà che, protetta e sicura, si addormentava sulle sue gambe con il viso sul suo petto ascoltando il ritmo del suo cuore. Scappava, non voleva sentire, proprio come me.Ma un giorno la vita ci ha messo uno di fronte all'altroQuel giorno sono caduta nelle sue braccia ed io ho sentito tutta la nostra paura di ascoltarciQuel giorno mi sono rivista in lui Il grande attaccamento agli altri e il bisogno di loro è stato sicuramente il fattore scatenante della patologia e lo ritrovo nei miei genitori. Ho sempre pensato che quella che vivo è la continuazione della paura di mia mamma di restare sola (è orfana) ma ho dovuto accettare anche la paura trasmessami da mio padre, la paura di restare lì ad ascoltare ciò che arriva, a prescindere da cosa sia.